venerdì 22 novembre 2019

Parmi un assurdo

[Trascrizione non rivista dall'autrice del discorso tenuto da Tamara Chikunova il 21 novembre 2019 a Trieste, in occasione di Cities for Life - Città per la vita, città contro la pena di morte, promosso dalla Comunità di Sant'Egidio]

Voglio condividere con voi la mia storia per riflettere sul terrore globale della pena di morte.
Mio figlio ed io vivevamo e lavoravamo in Uzbekistan, a Tashkent. Il 17 aprile 1999, un giorno che non prospettava nulla di male, è diventato il punto di partenza dell’orrore in cui siamo sprofondati io e mio figlio Dimitrij. Quel giorno nell’ufficio di mio figlio si presentarono tre uomini in borghese e gli dissero che doveva recarsi al dipartimento degli affari interni della regione. Io ero lì presente e chiesi per quale motivo: mi risposero che era solo una formalità e che dopo poco sarebbe stato rilasciato. Mio figlio mi rassicurò ed uscì assieme a loro. Non tornò più.
Poche ore dopo arrestarono anche me, mi interrogarono per dodici ore, poi mi picchiarono. Chiedevo notizie di Dimitrij, ma nessuno mi rispondeva. Mi lasciarono andare.
Dopo sei mesi rividi mio figlio per la prima volta, in carcere. Entrai e non lo riconobbi. Dimitrij mi raccontò delle torture subite per fargli dichiarare di essere colpevole di un duplice omicidio. Mio figlio non accettò di firmare un’ordinanza contro se stesso e subì ogni umiliazione pur di non dichiarare di aver commesso un omicidio che, appunto, non aveva commesso. Ma poi lo portarono sul luogo del crimine, lo fecero mettere in ginocchio, con le mani legate dietro la schiena, ammanettate. Un investigatore gli puntò una pistola al collo e gli disse: «Ora, o firmi la confessione di omicidio o ti sparo e dichiaro che sei morto in un tentativo di fuga». Dimitrij rifiutò e gli fecero ascoltare da un telefono cellulare una registrazione di quando ero stata picchiata dalla polizia. Allora disse: «Lasciate stare mia madre, garantite la salvezza della sua vita e firmerò i vostri documenti». Così mio figlio firmò la sua condanna a morte in cambio della mia salvezza.
L’11 novembre 1999 fu emessa la condanna a morte:

Dimitrij, 28 anni, cristiano, non ha alcun valore per la società e non può essere riabilitato in carcere, pertanto, per i reati commessi, viene condannato a morte per fucilazione

Sette mesi dopo mi fu concesso un colloquio con mio figlio nel braccio della morte del carcere in cui era detenuto. L’8 luglio 2000 ricevetti una sua lettera in cui mi scriveva:

«Cara mammina mia, aspetto tanto di vederti. Vorrei dirti tante cose, ma il tempo sarà limitato e parleremo solo del mio caso, dove fare ricorso e come argomentarlo. Ma voglio dirti quanto ti amo e ti rispetto, quanto mi manchi e penso a te, e mi preoccupo per te».

Il 10 luglio 2000 aspettavamo il colloquio, ma il colloquio non ci fu: quel giorno stesso, alle 10 del mattino, nel carcere di Tashkent fu segretamente fucilato il mio unico bambino, mio figlio Dimitrij. Come continuare a vivere? Non hanno ucciso solo mio figlio, hanno ucciso anche il mio futuro. Con la vita di mio figlio hanno ucciso anche la mia vita. Non volevo vivere, ero costantemente tormentata dalla domanda: perché tanta crudeltà?
Quaranta giorni dopo l’esecuzione mi è stata consegnata l’ultima lettera di mio figlio, che è come un testamento. Mi ha scritto:

«Mia cara mammina, ti chiedo perdono se il destino non permetterà di rincontrarci. Ricorda che io non sono colpevole, non ho ucciso nessuno. Preferisco morire, ma non permetterò a nessuno di farti del male. Ti amo molto. Sei l’unica persona cara della mia vita. Ti prego, ricordati di me. Molti baci, tuo figlio Dimitrij».

Dopo l’esecuzione di Dimitrij nel 2000 ho fondato l’associazione Madri contro la pena di morte e la tortura e ho cominciato a lavorare contro la pena di morte, per l’abolizione della pena di morte. Sono una giurista, ho lavorato su ogni singolo caso di condanna a morte. Io non giustifico i criminali per i loro reati, ma questa punizione non modifica la situazione, la aggrava soltanto. Quando viene presa una decisione di condanna capitale, viene presa a nome di tutti, e noi siamo colpevoli: cambiamo posto nella società, diventiamo carnefici.
Dopo l’esecuzione di mio figlio Dimitrij non sono riuscita a dormire per due anni, per la disperazione e lo strazio, per l’impotenza ed il senso di vendetta. Sentimenti che distruggono dall’interno, sentivo che rischiavo di diventare pazza. Il destino mi ha gettato a terra, distruggendo la mia vita, portando via il mio futuro. Ma come dice la Bibbia, Dio mi ha preso in braccio, mi ha dato la forza di vivere, mi ha mostrato la via della pace attraverso il perdono. E così ho saputo perdonare tutti coloro che avevano condannato a morte mio figlio. Ho perdonato tutti: quando vivevo nella vendetta, vivevo nel passato e nel dolore, e non vedevo il presente e la speranza nel futuro.
Ho ricevuto molte lettere da persone detenute nel braccio della morte, da persone che erano state torturate. Per evitare di firmare una condanna contro se stesso, un ragazzo si era tolto entrambi gli occhi. Quel ragazzo morì poco dopo: gli avevano lesionato il fegato durante le torture, aveva solo 27 anni. Mi ha scritto che aveva pregato assieme a tre ragazzi musulmani, avevano pianto insieme. Un sacerdote gli aveva fatto visita. Mi ha scritto che aveva perdonato tutti.
La pena di morte è spesso vista come una misura per ridurre i crimini violenti. Si compie un crimine in nome della legge, è la vendetta della società: ogni omicidio in nome della legge non fa altro che moltiplicare la violenza, perché dopo l’esecuzione dell’omicida la vittima non torna in vita.
La pena di morte implica una morte violenta, intenzionale e premeditata. È un atto pubblico contro la vita umana. È una tortura terribile attendere la morte ogni giorno.
Nei Vangeli ci sono molti esempi di misericordia di Gesù Cristo in casi chiaramente penali. Pongo molto l’accento su Dio e sulla religione perché non ho mai incontrato un ateo nel braccio della morte. Ho sempre visto tutti i detenuti pregare. Come quando un aereo sta per schiantarsi al suolo: tutti si mettono a pregare.
L’orrore della morte sta nella sua irreversibilità. I parenti di molte vittime pretendono l’esecuzione per la morte di un proprio caro. Dura lex, sed lex– la legge è dura ma è la legge. Ma la legge è altrettanto giusta, per quanto sia dura? La morte non pareggia la bilancia della giustizia: il giudizio della coscienza è molto peggio.
La cosa peggiore, nell’applicazione della pena di morte, è l’errore giudiziario. Nessun sistema al mondo è in grado di garantire una decisione giusta, coerente e priva di errori su chi deve vivere e chi deve morire.
Mio figlio Dimitrij, condannato con ingiusta sentenza nel novembre 1999, fu segretamente fucilato il 10 luglio 2000 nel carcere di Tashkent. Nel marzo 2005 è stato riabilitato post mortem, riconosciuto innocente e il suo processo è stato dichiarato iniquo. Ma la pena di morte è irreversibile e una giustificazione postuma non riporta in vita il condannato.
La Comunità di Sant’Egidio mi ha insegnato la possibilità di dialogo con i governi. Voglio sottolineare in particolare l’enorme contributo apportato dalla Comunità di Sant’Egidio nel lavoro per l’abolizione della pena di morte in Uzbekistan e per la protezione della mia stessa vita, che era minacciata dalle autorità. Nel corso di sette anni, giorno per giorno, abbiamo lottato assieme affinché ogni vita fosse risparmiata da questo orrore. Il 1 gennaio 2008 la pena di morte è stata ufficialmente abolita in Uzbekistan. Durante la collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio, precedente al 2008, erano state salvate dalla pena di morte 109 persone. Di quelle 109 persone sono stati riesaminati tutti i casi: solo 12 persone sono state condannate all’ergastolo, tutti gli altri processi erano stati falsificati.
Abbiamo lavorato insieme anche in altri paesi dell’Asia centrale per abolire la pena di morte: Turkmenistan (abolizionista dal 1999), Kazakistan (abolizionista dal 2007 per tutti i reati eccetto alcuni atti di terrorismo e crimini gravi commessi in tempo di guerra), Tagikistan (dove sono in vigore due moratorie), Mongolia (abolizionista dal 2015).
Io non giustifico i criminali per i loro crimini, ma uccidere i criminali per ottenere giustizia è una vendetta della società. Gandhi diceva che il principio occhio per occhio renderà tutto il mondo cieco.
Martin Buber scriveva che tutto inizia dal cambiamento di se stessi. Nessuno ci può impedire di cambiare. La scelta sta a voi.

lunedì 27 agosto 2018

Di passeggiate sulle rive

L'ultima volta che ho messo piede nel pronto soccorso dell'ospedale Maggiore di Trieste, città in cui vivo dal 1998, anno della mia nascita, è stata sette mesi: ci avevo accompagnato mio nonno, le cui analisi del sangue avevano rivelato dei valori da far venire il capogiro a medici ed infermieri. Ricordo una sala d'attesa discretamente affollata e dei lamenti costanti che invadevano l'atmosfera asettica.
Nella notte tra venerdì 24 e sabato 25 agosto sono tornata in quel pronto soccorso. Non sono io a sentirmi male, e nemmeno mio nonno, che probabilmente a quest'ora sta già dormendo, ma quattro ragazzi pachistani incontrati poco prima mentre, assieme ad altri volontari, verificavamo le condizioni dei migranti costretti a dormire per strada, concentrati soprattutto nella zona delle rive ed intorno alla stazione. Dopo esserci dotati di thè freddo, merendine e biscotti, abbiamo iniziato a cercare le persone che quella stessa mattina erano state sbattute sulla prima pagina del quotidiano locale triestino perché bivaccavano nei cosiddetti luoghi del "salotto buono", in prossimità di Piazza Unità. Decine di migranti arrivati a Trieste attraverso la rotta balcanica si erano attrezzati, nel limite delle loro possibilità, per trascorrere la notte all'aperto, in mancanza di un posto letto al chiuso. Ci è bastato imboccare le rive per incontrare alcune di queste persone, soprattutto pachistane. Dopo aver offerto loro del thè freddo ed aver distribuito pacchi di merendine, abbiamo iniziato a chiacchierare per cercare di capire in che modo potessimo concretamente aiutarli. In molti possiedono dei documenti che attestano la loro identificazione da parte delle forze dell'ordine, avvenuta, nella maggior parte dei casi, cinque giorni prima, mentre alcuni non sono riusciti a presentarsi in questura perché arrivati solo poche ore prima. In quattro lamentano dolori, chi allo stomaco, chi alla cervicale, e tutti presentano ferite sulle gambe, fra i talloni e le ginocchia, causate probabilmente dal lungo viaggio percorso a piedi. A preoccuparci è soprattutto un signore, il più anziano del gruppo, che ha discrete difficoltà a camminare e che più avanti ci confessa essere diabetico: è da otto mesi che non si fa un'iniezione di insulina, l'ultima volta si trovava in Serbia. Decidiamo quindi che è opportuno accompagnare chi necessita di assistenza medica in ospedale. Valutiamo l'ipotesi di andarci in auto, ma cambiamo idea non appena qualcuno ci illustra la possibilità di essere fermati per un controllo da una pattuglia della polizia - sono ormai le 22.30 ed in giro ce ne sono diverse - e di essere accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, dal momento che due dei quattro ragazzi malati non sono ancora stati identificati e non possiedono alcun documento. È dunque meglio andarci a piedi, nonostante le difficoltà che i quattro ragazzi hanno nel camminare. Il pronto soccorso è praticamente vuoto: sulle sedie della sala d'attesa è seduto solamente un uomo che lamenta un forte dolore alla schiena e che ci confessa essere lì dalle 13. All'accettazione l'infermiera di turno si rivela alquanto ostile non appena le spieghiamo perché siamo lì, ma il suo atteggiamento di immotivata avversione non ci scoraggia e, nonostante ci vengano prospettate ore di attesa, restiamo lì, sulle sedie fredde di quel corridoio d'ospedale vuoto, dalla pareti bianchissime, in netto contrasto con il buio ed il caldo che ci sono fuori. Per ingannare l'attesa, tiro fuori il cellulare dalla borsa e apro l'app di Facebook: risale ad un'ora fa il video in diretta in cui il vicesindaco leghista Paolo Polidori si riprende con il telefonino mentre scende dall'auto e si dirige verso lo stesso gruppo di migranti con cui avevamo interloquito fino a poco prima. Polidori gioca a fare il poliziotto cattivo e ad effettuare quello che lui stesso definisce "sgombero di migranti in diretta dalle rive": invita le persone distese a terra ad andarsene, perché «you cannot stay here: today, tomorrow and other days!», minacciando di chiamare la polizia - quella stessa polizia che, all'inizio del video, viene accusata di non fare nulla contro chi bivacca in centro.
Sono da poco passate le due del mattino quando i quattro ragazzi pachistani vengono visitati: a tre di loro viene prescritto del paracetamolo, mentre l'uomo diabetico deve essere ricoverato.

Trieste, Ospedale Maggiore
Venerdì 24 agosto, 23.51

Intorno alle 11 di sabato 25 agosto incontriamo di nuovo il gruppo di migranti con cui avevamo interagito la sera prima e che poco dopo erano stati cacciati dal vicesindaco. Abbiamo portato con noi dei vestiti, soprattutto magliette, scarpe, qualche felpa ed un paio di pantaloni. Cerchiamo di dare a ciascuno qualcosa, confrontando taglie e numeri di scarpe, mentre loro si scambiano ordinatamente i capi che trovano nelle nostre borse e si sfilano le ciabatte che portano ai piedi. Alla fine ci ringraziano calorosamente e ci salutiamo. Visto che ci è avanzata qualche maglietta, ci avviciniamo alla zona della stazione per smaltire quanto ci è rimasto: incontriamo altri due ragazzi, questa volta afghani, arrivati a Trieste da due giorni. Mi colpiscono entrambi per la loro giovane età: sono dei miei coetanei e tutta la loro vita è racchiusa in quegli zaini gonfi che portano sulle spalle. Mi ritorna in mente una metafora sentita ad uno spettacolo teatrale poco tempo prima che racconta di un albero che si affaccia su un precipizio: una mela che cresce dalla parte sicura cadrà sul prato, mentre una mela che si sviluppa nell'altra metà rotolerà giù e si disintegrerà sul fondo dello strapiombo. È proprio in questo che sono diversa da loro: io ho avuto la fortuna - non il merito - di nascere dalla parte sicura dell'albero, mentre loro la sfortuna - non la colpa - di crescere in quella non sicura.

La mattina di domenica 26 agosto vengo svegliata dall'aria pungente che entra dalla finestra di camera mia. La temperatura è sensibilmente scesa e la Bora corre velocemente per le vie della città: fa discretamente freddo ed a tratti scende una pioggia leggera che bagna le strade. Ripenso a quelle persone incontrate per strada, costrette a dormire su dei cartoni all'aria aperta: forse del thè caldo potrebbe essere loro d'aiuto. Sono le 19 quando infilo in una borsa di tela un thermos, dei bicchieri e diversi pacchi di biscotti. Più tardi, mentre passeggio sul Molo Audace e vengo rapita da un mai banale tramonto sul mare, incontro tre dei ragazzi pachistani conosciuti nei giorni precedenti: appaiono sereni, ringraziano per il thè e mi raccontano che auspicabilmente questa dovrebbe essere la loro ultima notte all'aperto, perché domattina si presenteranno in questura e si augurano, dopo aver effettuato il riconoscimento, di essere indirizzati verso una struttura di accoglienza. Ci salutiamo e loro si incamminano in bocca al tramonto.
Sui gradini della stazione sono seduti tre ragazzi dai volti sconsolati e stanchi. Non li conosco, ma decido ugualmente di avvicinarmi. Mi ringraziano con un sorriso per il thè caldo e mi raccontano che non hanno un posto dove stare e che non sono riusciti ad ottenere ancora dei documenti dalla questura perché arrivati in Italia da poco. Indossano delle magliette a maniche corte ed io istintivamente mi avvolgo con ancora più forza nella sciarpa che porto al collo perché sento freddo per loro. Nei pochi minuti che ci fermiamo a chiacchierare ci passano davanti due volanti della polizia, mentre dentro la stazione intravediamo due poliziotti che camminano avanti ed indietro. Nel frattempo il governatore leghista Massimiliano Fedriga ha deciso di rafforzare la presenza delle forze dell'ordine lungo la fascia di territorio che divide il Friuli Venezia Giulia dalla Slovenia.


@lagargantuesca

lunedì 16 ottobre 2017

Cuori infranti

La società ci riconosce matrimoni, funerali e anche cerimonie di laurea, ma rifiuta qualunque riconoscimento formale della triste fine di un rapporto, nonostante il suo fortissimo impatto emozionale

Il Museum of Broken Relationship di Zagabria nasce dalla volontà di raccogliere oggetti personali con lo scopo di caricarli di un valore universale. Si vuole confortare tutti coloro che hanno vissuto una delusione amorosa, e donare un oggetto a questo museo collettivo è un gesto terapeutico, utile per superare il crollo emozionale che caratterizza la fine di molte storie d'amore. Visitare la collezione di Zagabria è un modo per esorcizzare il dolore vissuto e per comprendere se stessi più a fondo, imparando trarre dai propri sentimenti le basi per un nuovo inizio.
Ogni oggetto è affiancato da una breve storia che permette di comprendere la sua importanza e il motivo della donazione.


Un'automobile a pedali

14 dicembre 2008 - 1 settembre 2011
Praga, Repubblica Ceca

Foto di Ana Opalić

«Lei sapeva che io da sempre, già da bambino, volevo possedere una macchina a pedali, ma che non l'avevo mai avuta. Ero già sopra i quaranta quando ne ricevetti una. Lei stava facendo una passeggiata con sua sorella quando vide una di queste macchine lasciate vicino ai cassettoni della spazzatura. La portarono a casa e la lavarono nella vasca da bagno. L'abbellirono con dei fiorellini e incisero sulle ruote il mio nome, i loro soprannomi e la data».


Tarantula, il libro di Bob Dylan

«Me lo regalò il mio ragazzo americano quando avevo 17 anni. Non sapevo che dopo, per anni, lui avrebbe pedinato i miei genitori, che avrebbe cambiato sesso e rubato il nome dei miei per la sua nuova identità».


Una fotografia

1993 - 1995
Bloomington, Indiana, USA

«Lago in Florida dove andavo quando col mio ragazzo marinavo la scuola. La freccia indica il luogo dove, sotto il sole splendente, per la prima volta vidi un pene».



Un orologio antico

«Un regalo dell' '87. Andava pazza per l'antichità: ogni cosa doveva essere vecchia e non funzionante, ragion per cui non siamo più insieme».


Tre volumi di Proust

1983 - 2011
Londra, Regno Unito
Foto di Ana Opalić

«Questi libri sfrangiati e ricoperti di sabbia sono il simbolo di una storia d'amore finita da poco tempo. Dopo le nostre nozze fummo assuefatti da Proust - le leggevo i suoi romanzi ad alta voce, soprattutto quando eravamo in vacanza. Risuona stupido e da secchioni, ma in certe estati mi sembrava che vivessimo in uno strano triangolo amoroso, dove il terzo intruso era quel Proust spiritoso e nevrotico, brillante nel comporre rapsodie a tema amoroso, ma completamente senza sesso. Sarà simbolico anche il fatto che noi, a differenza di Proust, non giungemmo mai alla fine: non leggemmo mai le ultime duecento pagine, che finirono strappate in una busta perché dovevamo rispettare il peso dei bagagli che era permesso per viaggiare in aereo».



Semi di ulivo

Belgrado, Serbia
6 anni

«Lui aveva una moglie di cui non parlava mai e un bebè di cui parlava moltissimo. Lei invece aveva una storia che non funzionava e che si stava avvicinando alla fine. Lui stava divorziando, lei si stava separando dal compagno. Tante persone. La preoccupazione di non ferirli. Lui sparì e lei non si arrabbiò, anche se le fece male, molto male. Dopo sette mesi si rividero per caso. Una sera, dopo due mesi, lui andò a trovarla a casa e lei gli preparò una cenetta. Mentre parlavano lui mangiava delle olive verdi. Dopo averle ripulite del tutto, ne sputava i semi. La sua lingua li puliva come una macchina minuziosa. Mai, né prima né dopo, lei incontrò qualcuno a cui piacessero le olive come piacevano a lui. Erano liberi. Lui partì per le ferie, ritornò dopo un mese e si fece subito vivo. Si videro lo stesso giorno e fecero l'amore. Fu stupendo. Dopo lui sparì. Lei si dedicò ad una storia nuova. Si incontrarono ogni tanto, clandestinamente. Era un amore duraturo, un incrociarsi e poi rincorrersi dietro. L'unica cosa certa che dimostrava l'esistenza di lui erano quei semi di olive che lei aveva salvato, e lui non ne sapeva nulla. Era ora che accadesse qualcosa con questa storia, che venisse mandata nel mondo, tra la gente, e che dai semi nascessero alberi d'amore. Gli alberi di ulivo sono tra i più longevi del nostro pianeta».


Il tostapane

2006 - 2010
Denver, Colorado

Foto di Ana Opalić

«Quando mi sono trasferita nella parte opposta del paese portai via il tostapane. Questo ti servirà da lezione: come farai ora a bruciare tutto?»


Il tappo dello spumante

«Dovevo sposarmi il 6 agosto 2011, ma pochi mesi prima venni a sapere che il mio fidanzato mi stava tradendo. Questo è il tappo dello spumante con cui brindai alla mia felice fuga».



@lagargantuesca

domenica 3 gennaio 2016

Mantenere la memoria viva

Sarajevo, 31 dicembre 2015

Gallery 11/07/95

Alcune delle vittime del genocidio di Srebrenica
Nel 1995 più di 8000 musulmani bosniaci morirono a causa del genocidio avvenuto a Srebrenica. Si tratta prevalentemente di uomini, ma è possibile riscontrare anche casi di donne e bambini. Oggi, il numero esatto delle vittime è di 8372 vite umane.
Nel 1995, la comunità internazionale era a conoscenza di quanto stesse accadendo a Srebrenica, ma decise di non reagire. Il processo di riesumazione e identificazione delle vittime continua ancora oggi.

Nella prima sala della mostra sono appese 640 fotografie di alcune vittime del genocidio di Srebrenica. È possibile riscontrare profili umani davvero differenti: uomini, ragazzi, donne. Circa 500 tra le vittime del genocidio erano minori di diciotto anni e persero la vita anche dei bambini appena nati. La ripetizione dei cognomi tra le vittime indica che in alcuni casi furono uccise famiglie intere.
A più di vent'anni dalla fine della guerra, molte persone continuano a vivere nei campi di Srebrenica. Tarik Samarah visitò le scene del crimine assieme ai familiari delle vittime, assistette alla riesumazione delle vittime e la documentò.

La prima parte della mostra è dedicata a coloro che sopravvissero al genocidio: l'unica strada per raggiungere il campo (che è anche l'unica strada per lasciarlo); una donna sull'uscio della porta che, seppur dopo molti anni, nutre ancora la speranza che possano essere trovati dei sopravvissuti (giravano dei racconti secondo i quali alcuni uomini di Srebrenica si trovavano in Serbia - chiaramente nessuno di questi era vero); il collage realizzato da una donna che perse tutti i suoi cinque figli a causa del genocidio e che portava sempre con sé; una donna con una bambola; un uomo che fuma una sigaretta; un bambino che aveva solamente venti giorni quando fu deportato e che oggi ha vent'anni. Insomma, Samarah ha immortalato scene di quella che era la vita di ogni giorno nei campi, spaccati di vita quotidiana.

La seconda parte della mostra racconta il lungo processo di riesumazione e identificazione delle vittime. I corpi venivano sistemati in molteplici fosse comuni e venivano sistematicamente spostati e ricollocati in altri luoghi per cercare di nascondere il crimine. Le prime fosse comuni si trovavano solitamente vicino alla scena del crimine, mentre quelle successive il più lontano possibile, spesso sul fronte tra Bosnia e Serbia, per far sembrare i corpi vittime di guerra.
I corpi che venivano e vengono tuttora riesumati sono generalmente incompleti: c'è un esempio di un solo uomo i cui resti sono stati trovati in cinque posti differenti, a trenta chilometri di distanza l'uno dall'atro.
600 vittime del genocidio: 599 uomini e 1 donna. Si trattava di una coppia,
e lui, prima di morire, aveva coperto il corpo della sua fidanzata con il suo
Samarah ha fotografato una foresta avvolta nella nebbia, che coincide con il paesaggio del genocidio; una bambola lasciata sulla scena scena del crimine con funzione di messaggio (in quel punto furono rinvenuti circa 600 corpi incompleti); i membri della International Commission on Missing Persons al lavoro; un corpo che sembra essersi preservato bene; due madri di Srebrenica accovacciate vicino a diversi cadaveri; un tipo di legatura pervenuto suoi luoghi del crimine (a volte le vittime erano legate con le mani dietro la schiena, altre erano legate tra di loro, insieme); una fossa comune contenente moltissimi teschi; una donna che stava dando del sangue per l'analisi del DNA, vicino a Sarajevo (quando nessun membro della famiglia è sopravvissuto, il processo di identificazione tramite l'analisi del DNA è impossibile da attuare); una madre che indossa un pezzo di stoffa con i nomi dei suoi familiari uccisi e che rappresenta solo una delle molte donne che hanno perso tutti i membri della loro famiglia e che ogni anno scendono in piazza per chiedere giustizia; parti di vestiti rinvenuti nelle fosse comuni, utili per il processo di identificazione; 600 vittime del genocidio, di cui 599 uomini e 1 donna; un puzzle di ossa umane (il processo di completamento di un cadavere era talmente lungo che molte famiglie, soprattutto genitori di bambini, decisero di procedere con il seppellimento nonostante fossero in possesso di un solo osso, per paura di non vivere abbastanza per vedere la ricostruzione del corpo completata); sacchi contenenti i corpi, sacchi di ossa.
Il momento dell'analisi del DNA per completare
l'identificazione delle vittime

La terza parte della mostra è dedicata alla memoria. Ogni anno, l'11 luglio, c'è una cerimonia per ricordare le vittime del genocidio.
Samarah ha immortalato una donna su un autobus che si dirigeva verso il Srebrenica Genocide Memorial e ne descrive la scena: c'era un livello di sicurezza altissimo e in media era presente un poliziotto ogni dieci metri. I poliziotti che in quel momento avevano il compito di proteggere i familiari delle vittime erano esattamente gli stessi che non molti anni prima si erano macchiati di quel genocidio. Sono inoltre presenti le scene dei funerali, ai quali molti politici presenziano in abiti eleganti, alcuni parlando al cellulare.
Una delle immagini più rappresentative della mostra raffigura un ammasso di pale utilizzate per seppellire le vittime (ne servirono circa 2400), dal quale ne emerge una separata dalle altre e "rotta dal peso delle emozioni".

L'esposizione è completata dalla visione di alcuni video di cui preferisco non svelare nulla. Vale la pena visitare Sarajevo per venire a vedere la Gallery 11/07/95 ed essere testimoni di quanto avvenuto a Srebrenica nel 1995.


@lagargantuesca