lunedì 27 agosto 2018

Di passeggiate sulle rive

L'ultima volta che ho messo piede nel pronto soccorso dell'ospedale Maggiore di Trieste, città in cui vivo dal 1998, anno della mia nascita, è stata sette mesi: ci avevo accompagnato mio nonno, le cui analisi del sangue avevano rivelato dei valori da far venire il capogiro a medici ed infermieri. Ricordo una sala d'attesa discretamente affollata e dei lamenti costanti che invadevano l'atmosfera asettica.
Nella notte tra venerdì 24 e sabato 25 agosto sono tornata in quel pronto soccorso. Non sono io a sentirmi male, e nemmeno mio nonno, che probabilmente a quest'ora sta già dormendo, ma quattro ragazzi pachistani incontrati poco prima mentre, assieme ad altri volontari, verificavamo le condizioni dei migranti costretti a dormire per strada, concentrati soprattutto nella zona delle rive ed intorno alla stazione. Dopo esserci dotati di thè freddo, merendine e biscotti, abbiamo iniziato a cercare le persone che quella stessa mattina erano state sbattute sulla prima pagina del quotidiano locale triestino perché bivaccavano nei cosiddetti luoghi del "salotto buono", in prossimità di Piazza Unità. Decine di migranti arrivati a Trieste attraverso la rotta balcanica si erano attrezzati, nel limite delle loro possibilità, per trascorrere la notte all'aperto, in mancanza di un posto letto al chiuso. Ci è bastato imboccare le rive per incontrare alcune di queste persone, soprattutto pachistane. Dopo aver offerto loro del thè freddo ed aver distribuito pacchi di merendine, abbiamo iniziato a chiacchierare per cercare di capire in che modo potessimo concretamente aiutarli. In molti possiedono dei documenti che attestano la loro identificazione da parte delle forze dell'ordine, avvenuta, nella maggior parte dei casi, cinque giorni prima, mentre alcuni non sono riusciti a presentarsi in questura perché arrivati solo poche ore prima. In quattro lamentano dolori, chi allo stomaco, chi alla cervicale, e tutti presentano ferite sulle gambe, fra i talloni e le ginocchia, causate probabilmente dal lungo viaggio percorso a piedi. A preoccuparci è soprattutto un signore, il più anziano del gruppo, che ha discrete difficoltà a camminare e che più avanti ci confessa essere diabetico: è da otto mesi che non si fa un'iniezione di insulina, l'ultima volta si trovava in Serbia. Decidiamo quindi che è opportuno accompagnare chi necessita di assistenza medica in ospedale. Valutiamo l'ipotesi di andarci in auto, ma cambiamo idea non appena qualcuno ci illustra la possibilità di essere fermati per un controllo da una pattuglia della polizia - sono ormai le 22.30 ed in giro ce ne sono diverse - e di essere accusati di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, dal momento che due dei quattro ragazzi malati non sono ancora stati identificati e non possiedono alcun documento. È dunque meglio andarci a piedi, nonostante le difficoltà che i quattro ragazzi hanno nel camminare. Il pronto soccorso è praticamente vuoto: sulle sedie della sala d'attesa è seduto solamente un uomo che lamenta un forte dolore alla schiena e che ci confessa essere lì dalle 13. All'accettazione l'infermiera di turno si rivela alquanto ostile non appena le spieghiamo perché siamo lì, ma il suo atteggiamento di immotivata avversione non ci scoraggia e, nonostante ci vengano prospettate ore di attesa, restiamo lì, sulle sedie fredde di quel corridoio d'ospedale vuoto, dalla pareti bianchissime, in netto contrasto con il buio ed il caldo che ci sono fuori. Per ingannare l'attesa, tiro fuori il cellulare dalla borsa e apro l'app di Facebook: risale ad un'ora fa il video in diretta in cui il vicesindaco leghista Paolo Polidori si riprende con il telefonino mentre scende dall'auto e si dirige verso lo stesso gruppo di migranti con cui avevamo interloquito fino a poco prima. Polidori gioca a fare il poliziotto cattivo e ad effettuare quello che lui stesso definisce "sgombero di migranti in diretta dalle rive": invita le persone distese a terra ad andarsene, perché «you cannot stay here: today, tomorrow and other days!», minacciando di chiamare la polizia - quella stessa polizia che, all'inizio del video, viene accusata di non fare nulla contro chi bivacca in centro.
Sono da poco passate le due del mattino quando i quattro ragazzi pachistani vengono visitati: a tre di loro viene prescritto del paracetamolo, mentre l'uomo diabetico deve essere ricoverato.

Trieste, Ospedale Maggiore
Venerdì 24 agosto, 23.51

Intorno alle 11 di sabato 25 agosto incontriamo di nuovo il gruppo di migranti con cui avevamo interagito la sera prima e che poco dopo erano stati cacciati dal vicesindaco. Abbiamo portato con noi dei vestiti, soprattutto magliette, scarpe, qualche felpa ed un paio di pantaloni. Cerchiamo di dare a ciascuno qualcosa, confrontando taglie e numeri di scarpe, mentre loro si scambiano ordinatamente i capi che trovano nelle nostre borse e si sfilano le ciabatte che portano ai piedi. Alla fine ci ringraziano calorosamente e ci salutiamo. Visto che ci è avanzata qualche maglietta, ci avviciniamo alla zona della stazione per smaltire quanto ci è rimasto: incontriamo altri due ragazzi, questa volta afghani, arrivati a Trieste da due giorni. Mi colpiscono entrambi per la loro giovane età: sono dei miei coetanei e tutta la loro vita è racchiusa in quegli zaini gonfi che portano sulle spalle. Mi ritorna in mente una metafora sentita ad uno spettacolo teatrale poco tempo prima che racconta di un albero che si affaccia su un precipizio: una mela che cresce dalla parte sicura cadrà sul prato, mentre una mela che si sviluppa nell'altra metà rotolerà giù e si disintegrerà sul fondo dello strapiombo. È proprio in questo che sono diversa da loro: io ho avuto la fortuna - non il merito - di nascere dalla parte sicura dell'albero, mentre loro la sfortuna - non la colpa - di crescere in quella non sicura.

La mattina di domenica 26 agosto vengo svegliata dall'aria pungente che entra dalla finestra di camera mia. La temperatura è sensibilmente scesa e la Bora corre velocemente per le vie della città: fa discretamente freddo ed a tratti scende una pioggia leggera che bagna le strade. Ripenso a quelle persone incontrate per strada, costrette a dormire su dei cartoni all'aria aperta: forse del thè caldo potrebbe essere loro d'aiuto. Sono le 19 quando infilo in una borsa di tela un thermos, dei bicchieri e diversi pacchi di biscotti. Più tardi, mentre passeggio sul Molo Audace e vengo rapita da un mai banale tramonto sul mare, incontro tre dei ragazzi pachistani conosciuti nei giorni precedenti: appaiono sereni, ringraziano per il thè e mi raccontano che auspicabilmente questa dovrebbe essere la loro ultima notte all'aperto, perché domattina si presenteranno in questura e si augurano, dopo aver effettuato il riconoscimento, di essere indirizzati verso una struttura di accoglienza. Ci salutiamo e loro si incamminano in bocca al tramonto.
Sui gradini della stazione sono seduti tre ragazzi dai volti sconsolati e stanchi. Non li conosco, ma decido ugualmente di avvicinarmi. Mi ringraziano con un sorriso per il thè caldo e mi raccontano che non hanno un posto dove stare e che non sono riusciti ad ottenere ancora dei documenti dalla questura perché arrivati in Italia da poco. Indossano delle magliette a maniche corte ed io istintivamente mi avvolgo con ancora più forza nella sciarpa che porto al collo perché sento freddo per loro. Nei pochi minuti che ci fermiamo a chiacchierare ci passano davanti due volanti della polizia, mentre dentro la stazione intravediamo due poliziotti che camminano avanti ed indietro. Nel frattempo il governatore leghista Massimiliano Fedriga ha deciso di rafforzare la presenza delle forze dell'ordine lungo la fascia di territorio che divide il Friuli Venezia Giulia dalla Slovenia.


@lagargantuesca